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Quei referendum premiati dal voto e traditi dal Parlamento
Quei referendum premiati dal voto e traditi dal Parlamento
Quei referendum premiati dal voto e traditi dal Parlamento
14 dicembre 1996
L’iter dei quesiti non sempre termina con il pronunciamento degli elettori e talvolta l’esito viene ribaltato. L’iniziativa di abrogare la quota proporzionale della legge elettorale potrebbe creare un vuoto legislativo. E a Montecitorio si discute una proposta di Giorgio Rebuffa (FI) che consentirebbe di superare l’ostacolo. La Cassazione dà il via libera a 18 richieste su 20.
(Il Foglio, sabato 14 dicembre 1996)
Milano - La Cassazione ha dato il via libera a 18 dei 20 referendum promossi dai Club Pannella. Solo i quesiti sull’Enel (“non esaustivo della materia”) e sui patti in deroga (una sentenza della Consulta l’ha reso superfluo) non hanno superato l’ostacolo.
Ora il Parlamento discute una proposta di legge di Giorgio Rebuffa (FI): “La legge anteriore - è scritto nel ddl - continua ad applicarsi fino alla completa attuazione e operatività di quella posteriore”. Per Rebuffa, se la sua proposta non fosse approvata, ci sarebbe il rischio, in caso di modifica della legge elettorale, di creare un vuoto legislativo che impedirebbe lo scioglimento delle Camere.
La ‘legge Rebuffa’ scongiura il pericolo e consente ai referendum elettorali di non essere bocciati (il 20 gennaio) dalla Consulta, visto che nel gennaio ‘95, proprio paventando il rischio del vuoto legislativo, la Corte cancellò i quesiti sull’abrogazione della quota proporzionale prevista dalla ‘Mattarella’. Ma l’iter dei referendum non termina con la sentenza di ammissibilità della Consulta e nemmeno con il voto. Non è detto, infatti, che il pronunciamento degli elettori porti all’abrogazione di una legge, o di parte di essa, nella direzione voluta dai promotori.
Finanziamento pubblico dei partiti
Il 18 aprile 1993 gli italiani hanno deciso di farla finita con il finanziamento pubblico ai partiti. I Sì hanno ottenuto il 90,3%. Lo scopo era quello di eliminare il finanziamento statale ai partiti politici, che all’epoca era di circa 90 miliardi. Dopo la vittoria dei Sì, le Camere hanno introdotto forme surrettizie di finanziamento pubblico. E’ stato aumentato in modo spropositato il rimborso spese ai partiti in caso di elezioni politiche e regionali (legge 515 del 1993). E da tempo si parla di introdurre un meccanismo simile a quello previsto per la Chiesa, che porterebbe nelle casse dei partiti il 4 per mille del gettito Irpef. Il ddl, approvato dal Senato, è stato bloccato alla Camera dall’opposizione, ma martedì ne discuterà la commissione Affari costituzionali di Montecitorio.
**Responsabilità civile dei magistrati**
Il caso più clamoroso di referendum “tradito” è quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Tanto che, nonostante nel 1987 i sì all’abrogazione parziale dell’articolo 55 del codice di procedura civile abbiano prevalso all’80,2%, i riformatori di Pannella hanno raccolto una seconda volta le firme per cancellare la legge Vassalli che fu approvata dal Parlamento all’indomani della consultazione popolare.
Nel 1986, sull’onda del caso Tortora, i promotori (Pr, Pli e Psi) chiesero l’estensione, in caso di errore giudiziario, della responsabilità civile dei magistrati (fino ad allora prevista solo nel caso di dolo) anche alle ipotesi di colpa grave.
Il magistrato che avesse commesso un errore per negligenza, imperizia o imprudenza avrebbe dovuto risponderne. Altro obiettivo dichiarato era quello di fissare il principio della responsabilità diretta e personale del magistrato, istituto che avrebbe dovuto funzionare come deterrente per evitare che il cittadino fosse perseguitato, anziché perseguito. Gli italiani votarono in stragrande maggioranza nella direzione voluta dai promotori.
Ma il Parlamento, il 13 aprile ‘88, approvò la legge Vassalli (legge n. 117), disinnescando gli effetti del referendum. La nuova normativa prevede, infatti, la responsabilità per colpa grave, ma con una serie di cavilli che per i magistrati il rischio di essere condannati è vicino allo zero. Tanto che dal 13 aprile ‘88 si ha notizia solo di una ventina di cause intentate da cittadini, senza che nessuna di queste sia giunta a conclusione. I magistrati, di fatto, restano irresponsabili perché la responsabilità diretta è dello Stato, che a sua volta può rivalersi sullo stipendio del giudice entro limiti calibrati sulla busta paga di quest’ultimo.
Trattenute sindacali
Anche il referendum sulle trattenute automatiche sindacali ha vinto nelle urne e perso in Parlamento. L’11 giugno 1995 si è votato sul quesito promosso dai soliti riformatori, e i Sì hanno ottenuto il 56,2% contro il 43,8% dei No. Il referendum chiedeva l’abrogazione dell’obbligo del datore di lavoro di trattenere in busta paga il contributo per l’iscrizione al sindacato previsto all’articolo 26, comma 2, della legge 20 maggio 1970, meglio nota come Statuto dei lavoratori. Nelle intenzioni dei promotori, il referendum voleva abrogare quel meccanismo di iscrizione ai sindacati grazie al quale le organizzazioni dei lavoratori contano su una rendita annua di 1.700 miliardi. La trattenuta prevista dalla legge 300 è una specie di iscrizione a vita al sindacato, con scarse e difficoltose possibilità di revoca da parte del lavoratore e con il tacito rinnovo di anno in anno senza che l’iscritto esprima la volontà di aderire ancora all’organizzazione di categoria. In realtà è cambiato poco o nulla. Camera e Senato non hanno emanato alcuna legge dopo il voto. Il referendum, infatti, ha cancellato solo l’obbligo, per l’impresa, di trattenere i soldi per l’iscrizione al sindacato, ma non il meccanismo in sé. Così aziende e sindacati si sono messi d’accordo per mantenerlo. I nuovi contratti collettivi firmati a ridosso del referendum prevedono ancora il meccanismo della trattenuta. Come se quell’11 giugno di un anno fa nulla fosse accaduto. La palla è passata all’Aran, l’agenzia statale che dal ‘93 cura i rapporti con i sindacati e “scrive” i contratti collettivi. Si parla di cambiare il nome della trattenuta im “cessione di credito mediante delegazione di pagamento”, di portare il rinnovo e la verifica ogni 3, 4 o 5 anni, e di rendere “quasi” immediati gli effetti della revoca.
Televisione pubblica e reti private
L’11 giugno 1995 si è votato su tre referendum sulla tv privata. Il risultato fu una vittoria schiacciante del fronte del No che ha ottenuto, in media, il 56%. Nonostante quel risultato, ancora oggi si discute di assetti televisivi.
Il primo quesito riguardava il numero massimo di concessioni televisive: la legge Mammì, determinando in 12 il numero delle concessioni nazionali, stabilisce che nessun imprenditore privato possa avere una quota superiore al 25% (tre reti) del numero totale delle concessioni.
In particolare il referendum chiedeva la riduzione, da tre a una, delle reti di proprietà dello stesso soggetto privato.
Il secondo referendum chiedeva il divieto (con l’eccezione dell’intervallo tra il primo e il secondo tempo) della trasmissione di spot pubblicitari durante la messa in onda di film.
Il terzo riguardava invece i tetti massimi di raccolta pubblicitaria. Questo è un caso anomalo di referendum tradito: hanno prevalso, infatti, i contrari all’abrogazione di queste parti della legge Mammì, e il Parlamento avrebbe dovuto, se non giuridicamente almeno politicamente, rispettare quel voto. Ma non è andata così.
E’ stata costituita una Commissione parlamentare sulla riforma e riassetto del sistema radiotelevisivo, poi si è tentato più volte di arrivare a un accordo tra maggioranza e opposizione (lodo Guarino, lodo Maccanico).
La trattativa, ancora in corso, giungerà presto a una soluzione, anche perché scade il decreto legge del governo. Sulla materia era intervenuta una sentenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato anticostituzionale il limite anti-trust del 25%, che sulle 12 reti televisive nazionali corrisponde effettivamente a 3 reti.
I giudici, in analogia con la legge sull’editoria, hanno stabilito il limite del 20%. Il Parlamento si è trovato davanti a un bivio: diminuire il numero massimo di concessioni di cui può essere titolare la stessa persona (da 3 a 2), oppure aumentare a 15 il numero delle concessioni nazionali, in modo da far rientrare le tre reti di proprietà della stessa persona nel tetto stabilito dalla Corte.
Con il referendum, il centrosinistra ha scelto la prima strada.
Gli italiani l’hanno sbarrata, ma non definitivamente.
L’11 giugno ‘95 si è votato anche per la privatizzazione della Rai. I Sì hanno ottenuto 54,9%.
Lo scopo era svincolare la Rai dal controllo parlamentare, che di fatto si sostituisce a quello dell’Iri, l’azionista unico. I promotori intendevano aprire la strada all’ingresso di privati e a un azionariato diffuso. Il Parlamento ha approvato una legge sui criteri di scelta del Cda Rai, ma non s’è fatto cenno della possibilità di privatizzarla, mentre si discute di aumentare il controllo parlamentare
http://www.radioradicale.it/quei-referendum-premiati-dal-voto-e-traditi-dal-parlamento
per gli ‘’ smemorati ‘’ :
Governo Prodi - (17.05.1996 - 21.10.1998)
Coalizione politica: Ulivo- INDIPENDENTI
XIII LEGISLATURA
Presidente del Consiglio
Romano Prodi
Vicepresidente del Consiglio
Walter Veltroni
e con questo replico alla domanda di Minchiamollo:
Ma il Parlamento, il 13 aprile ‘88, approvò la legge Vassalli (legge n. 117), disinnescando gli effetti del referendum. La nuova normativa prevede, infatti, la responsabilità per colpa grave, ma con una serie di cavilli che per i magistrati il rischio di essere condannati è vicino allo zero.
Tanto che dal 13 aprile ‘88 si ha notizia solo di una ventina di cause intentate da cittadini, senza che nessuna di queste sia giunta a conclusione. I magistrati, di fatto, restano irresponsabili perché la responsabilità diretta è dello Stato, che a sua volta può rivalersi sullo stipendio del giudice entro limiti calibrati sulla busta paga di quest’ultimo.